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Governo, In Primo Piano

Inutilità e danno dell’endorsement – Il referendum e la corsa alle adesioni

Posted: 13 Dicembre 2016 alle 12:21   /   by   /   comments (0)

Di Antonio Sileo
Questo articolo è stato pubblicato su Staffetta Quotidiana

 Tra la parole di lingua inglese di cui la lingua italiana potrebbe fare tranquillamente a meno vi è senz’altro endorsement. All’originale significato bancario di girata, firma a tergo, infatti, se ne è di recente aggiunto, a partire dal 2012 secondo il dizionario Treccani, uno nuovo che è diventato di particolare attualità soprattutto nel linguaggio politico, e in modo particolare in tempo di votazioni. Il termine endorsement, infatti, viene usato nel linguaggio giornalistico per indicare il sostegno, l’appoggio a un candidato o a un partito politico. E appunto tante altre sono le parole, italianissime, che si potrebbero adoperare: adesione, approvazione, schieramento.

Si dirà: alla fine più che la parola, italiana o meno, in fondo, conta la causa che si appoggia. Questo è senz’altro vero ma, specie in ambito politico, a importare dovrebbe essere anche il concreto aiuto che il sostegno può davvero dare alla causa.

Un folgorante esempio in tal senso è stato l’esito cristallino – una spettacolare sberla – del referendum sull’ormai mancata riforma costituzionale. A nulla, infatti, sono valsi gli appelli, le immancabili raccolte firme di professori universitari, scienziati e intellettuali vari, ma anche – numerosissimi – i sostegni individuali, spesso molto ostentati, di personaggi più o meno famosi: attori, cantanti e anche gli onnipresenti cuochi. Probabilmente non a caso presi da Lenin, nell’ormai lontanissimo 1917, come esempio di incompetenza. Naturalmente, non sono mancati anche gli schieramenti sul fronte del No, ma forse per complicità di molti media, anch’essi più o meno velatamente favorevoli al Sì, i primi sono parsi ben più numerosi e, appunto, ostentati.

L’opportunità degli appelli degli intellettuali è stata spesso discussa dagli intellettuali stessi: evidente il limite implicito dell’idea che la firma di una persona nota o (peggio) più intelligente valga più di quella di uno sconosciuto. L’idea di un governo “dei migliori” che indirizzino ed educhino “i peggiori” (per riprendere concetti espressi da Giovanni Raboni o Claudio Magris) può portare molti danni, specie su questioni politiche. Del resto, senz’altro ci sono opinioni che contano e interessano più di altre ma, in democrazia, un voto vale – piaccia o meno – quanto un altro.

Forse meno ci si è soffermati sull’incontenibile pulsione di vari personaggi noti di illuminarci con le loro più o meno sofferte scelte politiche o addirittura in materia di Costituzione. Per non annoiare, non lo faremo neanche noi. Ci limitiamo a registrare che i sostegni, in Italia come negli Stati Uniti, non hanno portato grande aiuto.

Tuttavia, poiché della debacle probabilmente si parlerà ancora per un bel po’, ma molto meno dell’opportunità degli appoggi (anche se su questa testata se ne è già scritto), vale la pena di spendere qualche ulteriore notazione, anche in vista di più o meno prossime elezioni.

Puntare (tutto) sul Sì è stato evidentemente un errore e certo è più difficile anche solo prendere la decisione, per un’associazione di categoria rispetto ad un singolo che, in fondo, specie a titolo personale, è libero di esporsi come vuole. Certo bisognerebbe anche chiedersi se lo sbandierato appoggio porti o, al contrario, sottragga voti. Né è il caso di ribadire che nell’energia il consenso sul territorio è merce quanto mai preziosa, e che non passa certo da un mero chiarimento di competenze, ma dalla buona volontà politica di tutte le parti in gioco.

Sul piano reputazionale invece è il caso di ricordare che, anche quando si affronta la realtà con ottimismo e razionalità conviti di stare dalla parte del giusto, una semplice dichiarazione sbagliata, una umana gaffe rischia di avere conseguenze di portata e durata sproporzionate.

Con internet e, in particolare con i cosiddetti social, il tempo, infatti, è sempre meno galantuomo e un’uscita infelice può essere facilmente ripetuta migliaia di volte tanto da risultare scritta sulla pietra o, peggio, manifestarsi come un male incurabile proprio quando bisognerebbe essere in piena forma.

Per esempio, è ben probabile che a Matteo Renzi – come del resto già accaduto con l’andare in Africa a Walter Veltroni – verrà rinfacciato sine die l’aver ventilato, almeno quattro volte, la possibilità di “cambiare mestiere”.

In vista di prossime chiamate alla urne ovviamente ognuno, come ha sempre fatto e come si spera sempre farà, è libero di puntare sul cavallo che ispira più fiducia. Meglio però, oggi più di ieri, non dirlo troppo in giro.