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Dai territori, Gas, Idrocarburi, In Primo Piano, Post in evidenza, Regioni, Rinnovabili, Unione Europea

Infrastrutture, territori e permitting

Posted: 20 Aprile 2020 alle 16:48   /   by   /   comments (0)

di Giovanni Galgano, pubblicato su Muoversi, trimestrale dell’Unione Petrolifera, n. 2 (2020)

Sono ormai molti anni che il nostro Paese pare avvitato intorno a sé stesso, incapace di abbracciare convintamente una strategia integrata di crescita sostenibile e di porsi obiettivi ambiziosi ma allo stesso tempo raggiungibili senza troppi spargimenti di sangue.

Tanti sono i fattori che concorrono a mio parere a questo stallo, ma non ne tratteremo qui se non per sommi capi e riferendoci in particolare alla vexata quaestio dell’ammodernamento infrastrutturale necessario al Paese e, considerando le pagine che ospitano il mio intervento, del centrale tema della visione energetica nazionale e sovranazionale.

Infrastrutture (“grandi opere” nella vulgata comune), energia (le “orribili” fossili raccontate dal mainstream ma anche le rinnovabili un tempo così belle e buone, ora anch’esse sulla graticola) e ciclo dei rifiuti sono, si sa, oggetto di veementi dibattiti e puntuali contestazioni, a tutti i livelli e con diverso grado di capacità analitica da parte di chi si cimenta con il dibattito.

Non daremo qui elementi valoriali né tantomeno giudizi politici sugli scenari di contestazione o di scontro: nulla vieta che l’opposizione a questa o quella iniziativa industriale o infrastrutturale possa essere legittima, solida o addirittura sacrosanta.

Si chiamava Nimby.

Era l’acronimo dell’espressione inglese Not In My BackYard, ossia non nel mio giardino: l’atteggiamento – più o meno strutturato – di chi contesta la realizzazione di un intervento che modifica lo status quo del territorio in cui si vive, e che dice: “Fatelo pure, ma andate da un’altra parte”. Ne scrivo al passato perché a mio parere oggi il concetto stesso di Nimby appare superato sia dal punto di vista sociologico che politico, essendosi trasformato in qualcosa di più solido e pervicace, che attiene al tutto e non più alla parte. In altre parole, l’opposizione mi appare come sempre più olistica, non prevedendo nemmeno più un giardino da preservare con l’obiettivo di spostare geograficamente un’iniziativa contestata. Come se il giardino si fosse globalizzato e ci stesse sommergendo tutti, cibandosi di un No generalizzato e aprioristico.

Il terreno di scontro prediletto è naturalmente il “territorio”.

Le cause della conflittualità territoriale sono molteplici e spesso intrecciate tra loro: una comunicazione migliorabile e la relativa mancanza di un processo partecipativo strutturato; la propensione a vedere i rischi ambientali più grandi di quelli reali. E pure rileva un’ineguale distribuzione dei costi e dei benefici tra il territorio che vive gli effetti della realizzazione dell’opera e quello (quelli) che ne beneficiano, così come la strumentalizzazione “politica” che gira intorno al fenomeno.

Gli studiosi della materia (o i praticoni come me) dicono oggi due cose: la paralisi che attanaglia su questo fronte il Paese si deve fondamentalmente alla voglia dei cittadini di essere sempre più ascoltati e di influire sulle scelte del loro “giardino”, opportunità che però non viene incanalata in un sistema di dialogo integrato o ben regolamentato; ma soprattutto ci dice che il fenomeno si è fortemente politicizzato, e che la protesta viene non solo cavalcata, ma spesso generata e guidata a fini di consenso, basandosi per lo più su una scarsa o approssimativa conoscenza tecnica e scientifica.

Si osserva spesso, e lo diciamo con rammarico, una carenza di capacità decisionale da parte degli enti locali che, di fronte a scelte importanti e spesso contrastate o dibattute a livello territoriale, decidono di non decidere, rinviando sine die atti amministrativi, convenzioni, atti formali in conferenze di servizi ecc. Spesso l’istituzione locale abdica al suo ruolo di guida del territorio e non permette il formarsi di una decisione “Centro-Periferia” condivisa, anche quando impopolare. Queste oggettive difficoltà in cui pare imballato il sistema si amplifica nella gestazione e nell’esecuzione di piani strategici di respiro nazionale e internazionale.

Prendiamo il PNIEC.

Il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima, concepito dal Governo italiano per guidare i complessi processi di transizione energetica e di decarbonizzazione, si pone obiettivi molto ambiziosi. Nel PNIEC l’eolico e il fotovoltaico sono individuati come i protagonisti assoluti della crescita di produzione da fonti rinnovabili nel mix energetico. Per raggiungere gli obiettivi prefissati dal Piano, il tema autorizzativo – ovvero la semplificazione e la velocizzazione delle procedure di permitting – appare certamente uno degli aspetti cruciali sui quale agire.

Il fattore-tempo appare sempre più determinante per la realizzazione di un numero adeguato di nuovi impianti (o per il repowering degli impianti esistenti), ma i ritmi autorizzativi oggi praticati dagli enti pubblici preposti sono del tutto inadeguati a garantire sia il raggiungimento di tali obiettivi, sia uno sviluppo industriale capace di tenere testa alle esigenze del mercato. Le diverse Regioni mostrano indirizzi e orientamenti anche molto discordanti nella prassi autorizzativa, e soprattutto si ha l’impressione che ad esse manchi la consapevolezza del ruolo centrale che rivestono nella strategia complessiva di governo delle infrastrutture energetiche o che lo interpretino guardandolo con una certa sofferenza, considerandolo quasi un’imposizione astratta. Le Regioni (o i “territori” di cui sopra) non hanno probabilmente ben compreso il ruolo politico che rivestono nel processo di transizione energetica in corso e non lo vivono da protagoniste, di fatto ostacolandolo inconsapevolmente.

Facciamo un salto in Europa.

Il Parlamento europeo a gennaio si è espresso a favore della designazione di nuovi e sfidanti obbiettivi di sostenibilità. Il Green Deal Europeo, ovvero l’imponente piano di politiche per la transizione energetica presentato dalla Commissione Europea lo scorso 11 dicembre, ha così mosso i suoi primi passi istituzionali.

L’Unione Europea si è impegnata a diventare il primo continente a emissioni nette nulle entro il 2050 e si attrezza per fornire sostegno finanziario e assistenza tecnica per aiutare le persone, le imprese e le regioni più colpite dal passaggio all’economia “verde”. Si tratta del cosiddetto meccanismo per una transizione giusta, che contribuirà a mobilitare – secondo le stime della Commissione – almeno 100 miliardi di euro per il periodo 2021-2027 nelle regioni più colpite.

Il piano di investimenti ha principalmente tre obiettivi: facilitare i finanziamenti per la transizione verso un’economia più pulita, creare un quadro normativo favorevole per gli investimenti – sia privati che pubblici – e agevolare le istituzioni nazionali nell’attivazione concreta di questi progetti.

E’ stato approvato il disegno di un primo Fondo (Just Transition Fund): uno stanziamento da 7,5 miliardi per perseguire l’eliminazione socialmente ed economicamente sostenibile del carbone dall’industria europea. Sebbene l’Italia benefici di una porzione limitata di tale fondo (poco più di 350 milioni di euro, laddove Paesi le cui economie dipendono fortemente dal carbone, come Polonia e Germania, riceveranno rispettivamente 2 miliardi e 877 milioni di euro), il nuovo approccio UE alla transizione energetica lascia presagire molte ed importanti novità anche per il nostro Paese.

In base a quanto contenuto nella Proposta di Regolamento che istituisce il Fondo per la Transizione, gli interventi finanziati nell’ambito di tale iniziativa possono essere utilizzati esclusivamente per attutire gli effetti sociali della dismissione delle attività altamente emissive: nell’ambito, quindi, dei territori che ospitano tali attività. Perché i fondi possano essere sbloccati, gli Stati membri devono elaborare specifici piani di investimento. Una volta vagliata la validità di questi ultimi in relazione agli obbiettivi ambientali del Green Deal Europeo ha luogo la transazione finanziaria e i fondi diventano risorse fresche per le economie locali.

Quanto al tema della decarbonizzazione del mix energetico, se da una parte il gas naturale è confermato come importante fonte di energia temporanea (“di transizione”), il Green Deal Europeo intende agevolare la diffusione in tempi brevi di infrastrutture per la diffusione e lo stoccaggio di gas decarbonizzato, come il biometano e l’idrogeno. Sono fonti di energia che possono beneficiare in larga misura delle infrastrutture gas esistenti e che vengono costruite sempre più capillarmente in Europa: ecco perché, attraverso investimenti che verranno attivati, verosimilmente, nell’ambito di InvestEU, il Green Deal Europeo lascia aperta la possibilità di un’ulteriore espansione della rete gas.

Questa primissima fase del Green Deal Europeo ci vede senza dubbio tra i Paesi più virtuosi. Abbiamo già lavorato bene in passato. Tuttavia, i cambiamenti ci saranno: e saranno rapidi, incisivi e profondi, probabilmente più di quanto non siamo abituati a pensare. Il nostro Paese dovrà rimettere in discussione (o a rischio) molte regole, molti punti del proprio PIL, molti posti di lavoro. Siamo pronti ad affrontare questa discussione?

Ah, nel frattempo è arrivato il coronavirus. Con quale denaro affronteremo lui e il Green Deal?